BUDDHISMO
BUDDHA LA DOTTRINA E LE QUATTRO NOBILI VERITA' I TESTI I CONCILI FESTIVITA' SANGHA NIRVANA PAGODE
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![]() ruota dell'esistenza
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Buddha GAUTAMA
Buddha Gautama (Kapilavastu, attuale Nepal 563 ca-486 ca. a.C.), fondatore del buddhismo. Il suo patronimico, nome del Buddha storico, è Gautama, mentre l'epiteto Buddha significa "l'Illuminato, il Risvegliato".
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Tra le fonti antiche, una cronologia singalese pone l'ultimo nirvana di Buddha circa 218 anni prima della consacrazione del re Aßoka (273 a.C.), mentre le fonti sanscrite e cinesi situano la scomparsa di Buddha un secolo dopo la consacrazione di Aßoka; risulta pertanto arduo separare leggenda e realtà, e collocare storicamente le vicende della vita del Buddha, poiché i resoconti a noi pervenuti non sono attendibili. |
Il primo periodo
Buddha, discendente della casta dei guerrieri Sakya, ebbe nome di Siddharta; prima della sua nascita la madre ebbe un sogno premonitore, e dopo il parto morì; il bimbo venne allevato dal padre nel più grande sfarzo. Siddharta sembrava mostrare una precoce tendenza contemplativa, mentre il padre l'avrebbe voluto guerriero e sovrano anziché monaco, sicché si sposò giovane, ebbe un figlio e partecipò alla vita di corte.
La tradizione vuole che il Buddha abbia intrapreso la ricerca dell'illuminazione a 29 anni quando, incontrando un vecchio, un malato e un morto, comprese improvvisamente che la sofferenza accomuna tutta l'umanità. Dopo essersi imbattuto in un monaco mendicante, calmo e sereno, stabilì di rinunciare alla famiglia, alla ricchezza e al potere per cercare la verità.
Siddharta vagabondò per diversi anni, soggiornando presso alcuni asceti, poi si stabilì nei pressi dell'attuale Gaya con cinque seguaci, trascorrendovi quasi sei anni nel più rigido ascetismo, fino quasi a morirne; comprendendo infine l'inutilità del digiuno, tornò gradualmente a una dieta normale e si alienò così le simpatie dei suoi discepoli, che videro nel suo gesto un segno di debolezza.
L'illuminazione
All'età di 35 anni, al Buddha, seduto sotto un fico sacro a Bodh Gaya, si spalancò l'illuminazione perfetta: egli meditò una notte intera fino a raggiungere il nirvana. Buddha conseguì, con la meditazione, livelli sempre maggiori di consapevolezza: afferrò la conoscenza delle Quattro nobili verità e dell'Ottuplice sentiero e visse a quel punto la Grande Illuminazione, che lo liberò per sempre dal ciclo della reincarnazione (vedi Trasmigrazione): dotato di sovrumana intelligenza, trascorse le settimane seguenti a contemplare i vari aspetti del dharma (legge) che aveva compreso.
Il Buddha come maestro
Il Buddha decise di predicare il dharma recandosi dapprima a Benares (Varanasi) dai suoi antichi discepoli, che lo accolsero come maestro e divennero monaci; tenne poi il suo primo sermone, in cui espose le dottrine fondamentali del buddhismo, come il principio fondamentale della "via di mezzo", disciplina monastica che equilibra gli estremi della rinuncia a se stessi e dell'indulgenza verso se stessi.
Accompagnato dai discepoli, Buddha percorse la valle del Gange, diffondendo la sua dottrina e fondando comunità monastiche che accoglievano chiunque, indipendentemente dalla condizione sociale. Si stabil` quindi in un monastero donatogli da un facoltoso ammiratore a Savatthi (sanscrito, Sravasti). Sebbene I monasteri a lui ispirati sorsero numerosi nelle principali città lungo il Gange, la sua lunga carriera di maestro e guida spirituale non fu del tutto esente da problemi, tentativi di scisma e persino di assassinio.
La morte e la fama del Buddha
Dopo una vita dedicata all'attività missionaria, Buddha morì a Kusinagara, in Nepal, a ottant'anni. A quanto pare predisse la sua morte e ne avvisò i discepoli, ma rifiutò di fornire indicazioni precise riguardo all'organizzazione futura e alla diffusione della sua dottrina, sostenendo di aver già insegnato loro quanto fosse necessario per la salvezza.
Il Buddha fu una figura straordinaria; fondò una nuova, grande religione e, ribellandosi agli estremi edonistici, ascetici e spiritualistici della disciplina religiosa coeva e al sistema delle caste, influenzò profondamente lo stesso induismo. Il suo rifiuto della speculazione metafisica e il suo pensiero logico introdussero un'importante tendenza analitica che era sempre mancata nella tradizione indiana.
la DOTTRINA
e le QUATTRO VERITA'
LA FILOSOFIA
Il problema principale che si incontra nello studio delle filosofie indiane (lo abbiamo già detto altre volte, ma è importate ripeterlo) è l'enorme difficoltà nell'accertare cosa abbia veramente detto il maestro originale e quali siano invece le interpretazioni dei suoi seguaci e discendenti. Il buddhismo non è un'eccezione. Ciò è abbastanza comprensibile se si pensa che i tempi del Buddha sono trascorsi da circa 2500 anni. Perciò cercheremo di parlare del buddhismo presentandovi la versione dei buddhisti storici. Ma quanto sarebbe meglio discutere di ciò che veramente disse il Maestro!
Cominciamo col definire la mentalità di un praticante buddhista. Prima di tutto il Buddha non diceva di essere Dio o qualche incarnazione divina, ma sosteneva di essere un uomo qualsiasi e che qualunque risultato dovesse essere ottenuto grazie al proprio sforzo. Il ruolo dell'uomo è fondamentale. Non essendoci alcun Dio da realizzare, il fulcro principale della ricerca filosofica è la persona, l'uomo, la cui posizione è sempre suprema. Solo lui, infatti, può accedere al più alto stadio, che è quello di divenire un Buddha. Come abbiamo già accennato, non c'è un essere supremo o un potere superiore che possa decidere il nostro destino: ognuno è il rifugio di se stesso. L'importanza dei maestri (i tathagata), come il Buddha e gli altri, sta nell'insegnare la via, che poi però deve essere percorsa dallo studente, cioè da ognuno di noi.
Da questo inizio possiamo vedere quanto diverso è l'approccio alla filosofia da parte del buddhismo rispetto alle altre dottrine indiane. Tutte queste hanno sempre messo al centro di ogni cosa un Dio spirituale (personale o meno che sia), mentre per il buddhismo l'uomo è solo e pienamente responsabile del proprio destino. Una manna, per gli atei e i materialisti di ogni genere.
La cosa più importante è la giusta conoscenza. Il maestro non deve essere accettato prima che abbia dato prova di possedere la conoscere corretta e solo allora il discepolo deve accettare di porsi sotto la sua guida. E lui, lo studente, deve avere un forte desiderio di conoscere.
La base della sapienza è la fede, ma non quella cieca di tante religioni, bensì quella fondata sull'esperienza. Infatti, dice il Buddha, la fede è quella che scaturisce dalla conoscenza. Se conosci, credi. Non si può credere a qualcosa che non si conosce. L'Illuminato criticava il brahmanesimo del suo tempo proprio per questa loro pretesa di far credere ciò che poi non poteva essere realmente conosciuto e paragonava quei brahmana degradati a tanti ciechi che volevano trascinare altri nel loro stesso baratro.
Ma non si deve neanche essere attaccati alla conoscenza stessa, la quale può diventare un fardello. E' come una zattera: quando il fiume è attraversato, questa va abbandonata. Non c'è bisogno di portarsela appresso.
Il Buddha era un filosofo pratico. Non sembra che fosse stato interessato a complicate questioni metafisiche. Nel suo discorso a Malunkyaputta, affermò che comprendendo tutto ciò che riguarda le quattro verità fondamentali (chiamate le Quattro Nobili Verità), si sarebbe conosciuto tutto. Queste sono:
1) dukkha,
2) samudaya, il sorgere, o l'origine del dukkha,
3) nirodha, la cessazione del dukkha,
4) magga, il sentiero che conduce alla cessazione del dukkha.
Seguiremo la traccia dell'Illuminato cercando di spiegare i suoi insegnamenti passando proprio attraverso l'analisi delle Quattro Nobili Verità.
LA PRIMA NOBILE VERITA'
Il termine pali dukkha (in sanscrito duhkha) generalmente è tradotta come sofferenza, ma questa parola non è sufficiente per dare l'idea piena del suo significato. La sofferenza è solo una parte del dukkha. Infatti essa porta in sé anche i concetti di imperfezione, di impermanenza, di vacuità, di insostanzialità. E siccome è difficile trovare una parola italiana che comprenda tutti questi significati, crediamo sia meglio non tradurla affatto.
Quando il Buddha dice che questo mondo è composto solo di dukkha, non intende negare l'esistenza di varie forme di felicità, siano esse materiali che spirituali. In una delle scritture che ci informano dei primi dialoghi dell'Illuminato (l'Anguttara-nikaya) troviamo addirittura una lista di cose piacevoli che sia un laico che un monaco può trovare nel mondo. Ma queste sono incluse nel dukkha. Persino gli stati più altamente spirituali sono inclusi nel dukkha. La ragione è che tutti sono impermanenti e soggetti alle mutazioni. Forse non sono sofferenza, possono anche essere piacevoli, ma certamente sono dukkha, perché destinati alla fine.
Il piacere dei sensi si manifesta ed esiste in tre modi e momenti diversi, che sono:
1) l'attrazione,
2) l'insoddisfazione e
3) la liberazione.
Facciamo un esempio. Quando ascoltate una bella musica, ne siete attratti e ne gioite. Ma prima o poi finisce e allora sentite il dispiacere. In questo modo si può capire che è un'illusione e ve ne distaccate, diventando liberi dall'attrazione. Per liberarsi veramente è necessario rendersi conto della realtà della vita.
Il dukkha può essere visto sotto tre aspetti:
1) dukkha visto come sofferenza comune (dukkha-dukkha),
2) dukkha inteso come prodotto del cambiamento (viparinama-dukkha) e
3) dukkha compreso come l'insieme di stati condizionati (samkhara-dukkha).
Ora, comprendere che in questa vita si soffre e che si prova dolore perché tutto sfugge è facile capirlo. Ma per capire il terzo tipo di dukkha (il samkhara-dukkha) si devono approfondire alcuni concetti, cominciando da quello che riguarda il cosiddetto "io".
Per il buddhismo non esiste un io individuale, un atma, come lo si concepisce nel Vedanta e in tutte le altre dottrine di origine vedica. Quello che noi chiamiamo "il sé" è solo una combinazione di forze, o energie mentali e fisiche, che sono in continuo cambiamento. Insomma, potremmo chiamarlo un flusso energetico in continuo mutamento. Ma non esiste nessun io.
Questi flussi possono essere schematizzati secondo cinque raggruppamenti e per questa ragione vengono chiamati "i cinque aggregati". Messi insieme, costituiscono il senso più profondo della parola dukkha.
Questi cinque (panchakkhandha) sono gli aggregati
1. della materia (rupakkhandha), che includono tutto il regno della materia vera e propria, sia interna che esterna,
2. delle sensazioni (vedanakkhandha), comprendenti il mondo delle sensazioni sia fisiche che mentali,
3. delle percezioni (sannakkhandha), e cioè la capacità di riconoscere sia l'oggetto fisico che mentale,
4. delle formazioni mentali (samkharakkhandha), che sono il potere concernenti le attività dipendenti dalla volontà,
5. della coscienza (vinnanakkhandha), che sono le reazioni conseguenti alle percezioni.
A questo punto è meglio spendere qualche parola sulla coscienza.
Nelle filosofie vediche noi apprendiamo che la coscienza è la prima manifestazione dell'anima, intesa come un sé individuale. Ma nel buddhismo è differente. La coscienza non sorge da alcun sé, bensì è il risultato delle condizioni esterne. Abbiamo un occhio e una forma visibile; dunque nasce una coscienza visibile. Abbiamo un palato e del cibo; dunque nasce un'altra coscienza visibile. Ma questa coscienza non nasce se non ci sono le condizioni. Perciò non c'è una coscienza oggettivamente esistente.
Abbiamo già accennato a cosa è il mondo secondo il Buddha: un flusso continuo e non permanente di elementi. Con l'atto di sparire, un elemento condiziona l'apparizione del seguente, in una serie di cause ed effetti che non conosce soste. Quindi non c'è una sostanza eterna e immutabile. Non esiste nessun sé dietro le cose, nessun io individuale né subordinato né supremo, ma solo degli aggregati fisici e mentali interdipendenti tra di loro, che costituiscono la "macchina psicofisica".
Buddhaghosha diceva che esiste una sofferenza, ma non un lui che soffre; che ci sono le azioni, ma non un autore; c'è il movimento, ma non un motore che lo provoca. Non sussiste differenza tra il pensiero e colui che lo pensa: infatti se togliete il pensiero, non esiste più un pensatore.
Andiamo a vedere un'altra questione. Ci chiediamo: la vita ha un inizio? La risposta è no. E' impensabile che la vita, ossia la corrente vitale degli esseri viventi sia nata in qualsiasi dato momento. E' eterna e, con essa, anche il samsara è eterno. E la causa principale delle continuità della vita è l'ignoranza.
Il Buddha diceva che era importante capire bene cosa fosse il dukkha: chi lo conosce, vede chiaramente il suo insorgere e ne intravede la cessazione; così come comprende quale sia il sentiero che conduce alla perfezione dell'esistenza.
LA SECONDA NOBILE VERITA'
Ora parleremo della Seconda Nobile Verità, che riguarda l'origine del dukkha. Da cosa proviene? Dal prepotente desiderio di essere e di provare qualcosa (tanha), risponde il Buddha, da cui proviene la rinascita e ogni tipo di divenire.
Ci sono diversi tipi di desideri (o sete di sensazioni), che vengono classificati nel seguente ordine:
1) la voglia di piacere sensoriale,
2) la spinta a esistere e a divenire,
3) il desiderio di annullarsi, di scomparire.
Queste voglie sono all'origine di tutte le sofferenze e, come conseguenza, della continuità degli esseri. Ma neanche questo forte desiderio è la causa prima di tutto, in quanto il buddhismo rifiuta l'idea di una qualsiasi ragione che sia al principio di tutto. Se si ammettesse che qualcosa era al principio, questa diverrebbe indipendente. E non c'è nulla del genere, in quanto ogni cosa è interdipendente in modo totale. Se volessimo immaginare il creato ce lo potremmo figurare come una ruota, che non ha un punto dove inizia e dove finisce.
Ma questa voglia insaziabile di esistere da dove proviene? Dall'ignoranza, risponderebbe qualsiasi buddhista, che nasce dalla falsa cognizione di un sé. In altre parole, dal momento in cui cominciamo a pensare di esistere, iniziamo a provare mille desideri. A causa di questa falsa concezione, noi agiamo (karma) e da queste azioni provengono delle reazioni (karma-phala), che ultimamente ci costringono a rinascere in un ciclo senza fine (samsara). Ma vediamo meglio questa teoria dalla prospettiva buddhista.
Ci sono quattro condizioni necessarie per l'esistenza e per la continuità degli esseri, che sono:
1) il nutrimento che conosciamo, quello che otteniamo con il cibo,
2) il contatto degli organi di senso con il mondo esterno, senza dei quali qualsiasi vita sarebbe improbabile,
3) la coscienza, di cui abbiamo già parlato,
4) la volontà, che è l'esigenza di esistere.
Queste condizioni fanno sì che la vita sia possibile, ci capacitano a portare avanti diversi tipi di azioni, che possono sempre essere positive o negative. Queste provocano delle reazioni della stessa natura che causano la continuità e impediscono l'estinzione del concetto di essere, da cui scaturisce ogni sofferenza.
Ma non dobbiamo pensare che questo dolore sia qualche tipo di giustizia divina o morale, non sono delle ricompense o delle punizioni in quanto, per il buddhismo, non esiste un Dio che giudica e che quindi punisca o ricompensi. Ogni essere condizionato è prigioniero di questa legge; solo il liberato (arahant) può agire in questo mondo senza che i suoi atti producano alcun karma, e questo perché è libero dalla falsa idea che esista un sé. Per tale persona non c'è rinascita.
Cos'è la morte? Come dicono anche le dottrine di origini vediche, la morte in sostanza non esiste: anche per il buddhismo la conclusione è la stessa. Ma le ragioni differiscono. Mentre per i Veda noi siamo l'anima e questa, essendo eterna, non muore, per il buddhismo tutto ciò che c'è in questa vita si trasferisce nella prossima. E quindi la morte è un fenomeno illusorio.
Ora, sicuramente viene da chiederci, se non c'è un atma, dopo la morte cos'è che si reincarna? Abbiamo già detto che per il buddhismo la vita è una combinazione di elementi, di impulsi energetici in continuo cambiamento; nulla rimane lo stesso neanche per due istanti consecutivi. Ogni momento tutto nasce e muore. Anche ciò che identifichiamo come il "noi" subisce ogni istante lo stesso processo. L'istante della morte non è che uno dei tanti momenti della vita, in cui quelle stesse forze si trasformano, per continuare ad esistere in nuove forme. L'esistenza di ogni cosa è un continuo rinnovarsi: nulla è immutabile e nulla si trasmette da un istante all'altro. E' una serie continua, ininterrotta, di mutazioni, di movimenti. Ciò che rinasce dopo la morte non è che la continuità della stessa serie.
La differenza tra la vita e la morte non è che un istante mentale: l'ultimo momento di attività mentale condiziona il primo della cosiddetta nuova vita, che porrà le basi per la continuazione della serie. E tutto ciò andrà avanti fintanto che ci sarà la sete di essere. Questo circolo vizioso si può spezzare solo con l'arma della saggezza.
LA TERZA NOBILE VERITA'
Ora discuteremo le teorie buddhiste che riguardano la liberazione. Questa Terza Verità è chiamata "la Cessazione del Dukkha" (dukkhanirodha-ariyasacca) e non è altro che il Nirvana, termine ben conosciuto anche in occidente.
Prima di tutto dobbiamo dire che il Buddha ammetteva l'esistenza della liberazione, e anzi che tutto il nostro sforzo deve vertere sul suo ottenimento. Per far ciò bisogna eliminare la radice del dukkha. Come? Azzerando i desideri. Infatti un altro epiteto del Nirvana è tanhakkhaya (estinzione della sete).
Ma andiamo con ordine e vediamo cosa si intende per Nirvana.
In primo luogo bisogna dire che non si può mai essere precisi quando si parla di questo argomento, in quanto il linguaggio è uno strumento creato dagli uomini e risente perciò delle loro stesse limitazioni e dei loro condizionamenti. Infatti abbiamo tradotto in parole solo la limitata gamma delle esperienze sensoriali. Dunque è un'arma che potrebbe diventare controproducente, in quanto produce degli schemi mentali che non corrispondono alla verità. Ma siccome non si può rinunciare a comunicare con le parole, tentiamo di definire il Nirvana.
Secondo una logica diffusa negli ambienti buddhisti, definire il Nirvana in modo positivo presenta pericoli maggiori che farlo con il processo negativo, per cui conviene sempre prima specificarlo in rapporto a "ciò che non è". Per cui il Nirvana è "lo stato dove il desiderio è cessato", è il "non composto", "l'incondizionato", "la situazione in cui tutto è estinto, spento" e via dicendo. E' dunque la cessazione della continuità e del divenire.
Ma, affermano i buddhisti, sbaglia chi dice che si stia tentando di promuovere una qualsiasi forma di nichilismo, o di annientamento del sé: in realtà non c'è alcun sé da annullare, né nient'altro da azzerare. L'unica cosa che deve essere annientata è la falsa idea di un sé. Questa è sapienza perfetta.
In ciò consiste la Verità Assoluta, che è il determinare con certezza totale che al di là del Nirvana non c'è nulla di assoluto; che tutto è relativo, condizionato e temporaneo e che non esiste atma dentro o fuori di noi. Ogni cosa che sperimentiamo diventa vera solo quando possiamo vedere la realtà priva di veli, senza illusioni o condizionamenti.
Ma il Nirvana non è il risultato dell'estinzione del desiderio. Infatti se fosse il risultato di qualcosa, diventerebbe un elemento condizionato. E nella logica buddhista questa conclusione deve essere rigettata.
Potremmo chiederci cosa ci sia al di là del Nirvana, e la risposta è ovvia: dopo di quello non c'è nulla. Il Nirvana non è un regno, o uno stato, ma un'estinzione. Dunque non dobbiamo immaginarlo come una specie di paradiso dove ritroviamo i nostri maestri, i nostri amici, le persone a cui tenevamo durante la nostra vita. Anche i Buddha si estinguono dopo la morte.
Si sta parlando di come ottenere lo stato di Nirvana. Ma chi è che lo realizza, se non esiste un'atma? La risposta è che è la comprensione che comprende, ed è la stessa energia che vuole liberarsi. Dentro la prigionia c'è la liberazione, l'ignoranza comprende la capacità di giungere a comprensione. Dentro dukkha c'è l'elemento della sua cessazione: possiamo trovarlo all'interno dei cinque aggregati. Dunque la liberazione è parte naturale di ciò che noi crediamo sia il creato.
Quando la saggezza è sviluppata, si vedono le cose come stanno e tutte le forze che producono il ciclo delle morti e delle rinascite (samsara) si placano e diventano incapaci di produrre nuovo karma. Cessata è l'illusione, non c'è più sete per la continuità: solo allora si ottiene il Nirvana, stato che si può raggiungere anche in questa stessa vita. Chi ha guadagnato questa posizione prova la più grande felicità possibile, che consiste nel non provare più sensazioni.
Ma il Nirvana è al di là di ogni logica e ragionamento. Non si può capire con esattezza solo discutendone: dobbiamo soprattutto realizzarlo.
LA QUARTA NOBILE VERITA'
Ora andiamo ad analizzare il sentiero, cioè i modi necessari per giungere alla cessazione del dukkha. Questo sentiero è generalmente conosciuto come "l'Ottuplice Sentiero", una strada composta di otto fasi. Infatti essa è composta da altrettante categorie (o divisioni), che sono:
1) retta comprensione,
2) retto pensiero
3) retta parola
4) retta azione
5) retta condotta di vita
6) retto sforzo
7) retta consapevolezza
8) retta concentrazione
Questa sezione può, con tutta probabilità, essere considerata la parte più importante dell'insegnamento del Maestro; sicuramente è quella sulla quale ci si è soffermato con maggiore insistenza. Bisogna anche premettere che le otto categorie che compongono questo processo disciplinare non vanno praticate una dopo l'altra, ma più o meno in modo simultaneo. Queste sono utili a perfezionare i tre elementi essenziali della disciplina buddhista, che sono la Moralità, la Disciplina Mentale e la Saggezza.
Vediamo le ultime tre una per una, inquadrandole nella logica del Sentiero a Otto Fasi.
Quando parliamo di Moralità (shila) intendiamo l'amore e la compassione nei confronti di tutti gli esseri viventi, che però deve tradursi in un aiuto reale, non sentimentale, che solo la Saggezza può conferire. Questa qualità comprende tre fattori del Sentiero a Otto Gradi, che sono la retta parola, la retta azione e la retta condotta di vita. La parola è retta quando non si indulge in bugie, in maldicenze, in linguaggi duri, scorbutici o addirittura ingiuriosi, nel pettegolezzo o nei discorsi futili. Se non ha nulla di importante da dire, il buddhista deve rimanere in "nobile silenzio". La retta azione mira a promuovere una condotta morale irreprensibile. La retta condotta di vita vuole ingiungere a tutti di astenersi, anche se solo per guadagnarsi da vivere, da professioni che possano nuocere agli altri. Questi tre fattori costituiscono la Moralità.
Viene poi la Disciplina Mentale, in cui sono inclusi altre tre elementi del Sentiero a Otto Gradi, che sono: il retto sforzo, la retta attenzione e la retta concentrazione. Il retto sforzo è la volontà energica di prevenire gli stati mentali cattivi e malsani, di sbarazzarsi di quegli stati negativi che siano già sorti in noi e naturalmente di produrne di positivi. La retta consapevolezza (o attenzione) consiste nell'essere sempre coscienti di ciò che si fa, delle nostre sensazioni, delle emozioni, delle attività della nostra mente, delle idee e dei pensieri. Il terzo e ultimo fattore della disciplina mentale è la retta concentrazione. E' importante imparare a concentrarsi nel modo giusto.
Infine la Saggezza, composta dagli ultimi due elementi che costituiscono il Sentiero a Otto Fasi, che sono il retto pensiero e la retta comprensione. Il retto pensiero è il controllo delle proprie riflessioni, le quali devono essere educate a focalizzarsi su soggetti come la rinuncia e l'amore universale. La retta comprensione consiste nello sforzarsi di capire come stanno le cose in realtà e che possiamo impararle comprendendo le Quattro Nobili Verità.
Dunque, riassumendo il tutto, la prima verità consiste nel capire la natura vera della vita, che è dukkha. La seconda nella comprensione precisa dell'origine del dukkha, che è il desiderio. La terza nel trovare il modo di estirpare il dukkha. La quarta nell'analisi del sentiero che conduce al Nirvana.
LA DOTTRINA DEL NON SE'
Torniamo ora su uno dei punti cardini della filosofia buddhista, che è quella dell'anatma (in pali anatta), ovverosia della convinzione che non esista nessun sé, né individuale né assoluto. Vediamo di dare qualche elemento in più oltre quelli già espressi.
Nella storia del pensiero, il buddhismo è stato forse il solo a negarne l'esistenza in modo tanto perentorio. Va detto subito però che anche su questo punto fervono da secoli aspre polemiche, in quanto c'è chi sostiene che il Buddha non sarebbe stato affatto chiaro su questo argomento ma che avrebbe spesso taciuto e altre volte detto mezze verità. Siamo d'accordo su questa interpretazione. Infatti non affrontare un discorso sull'anima non significa necessariamente volerne affermare l'inesistenza. Ma anche qui sarebbe interessante poter stabilire cosa avesse veramente inteso dire o tacere il Maestro e separarlo dalle interpretazioni dei suoi successori.
Ad ogni buon conto, per il buddhismo classico l'idea dell'atma è una credenza totalmente infondata e anzi pericolosa. Dal loro punto di vista ha, infatti, il potere di causare pericolosi dualismi interiori, scatenare l'idea dell'io e del mio, desideri egoistici e mai saziabili, orgoglio e impurità. Secondo loro, tutti i guai del mondo possono essere fatti risalire a questa falsa visione.
Abbiamo già visto come tutto il creato ricade nelle cinque divisioni di elementi, oltre alle quali non c'è nulla. Comprendendo la dottrina della Genesi Condizionata (Paticca-samuppada), ci si può liberare dalla falsità. Questo sistema dice che:
1) L'ignoranza condiziona le azioni (karma); in altre parole noi agiamo, e lo facciamo in un certo modo a causa dell'ignoranza che ci imprigiona. Poi
2) dalla qualità delle azioni viene condizionata la coscienza, che è la facoltà di percepire. Dunque è naturale che
3) dalla coscienza siano condizionati i fenomeni mentali e fisici,
4) dai quali inevitabilmente vengono condizionate le sei facoltà (i cinque organi di senso più la mente).
5) Dalle sei facoltà è condizionato il contatto (sia dei sensi che della mente), il quale poi
6) condiziona la sensazione, o la capacità di provare gusti,
7) dalla sensazione è condizionato il desiderio. Quando si provano delle sensazioni è normale che il desiderio ne sia condizionato. Poi
8) dal desiderio viene condizionato l'attaccamento
9) dall'attaccamento è condizionato il divenire
10) dal divenire è condizionata la nascita
11 e 12) dalla nascita sono condizionati la vecchiaia, la morte, il lamento, il dolore.
E' così che la vita nasce esiste e continua. Per far sì che il processo dell'ignoranza abbia fine dobbiamo invertire la direzione di marcia, e cioè: cessando l'ignoranza, terminano le attività interessate e via dicendo.
Comunque ribadiamo che per il buddhismo non esiste nulla di assoluto e indipendente: tutto è condizionato e condizionante.
Qualcuno potrebbe chiedersi: come mai nel linguaggio del Buddha erano così tanto presenti i concetti riguardanti le persone e le cose, come se esistessero delle individualità?
La risposta è simile a quella che avrebbe dato Shankara, e cioè che esistono due tipi di verità: la verità convenzionale e la verità ultima. La prima è quella che si stabilisce per comodità di dialogo e serve per avvicinarsi a una verità superiore, mentre l'altra è la definitiva.
Non sono pochi, comunque, coloro che sostengono che il Buddha avrebbe ammesso l'esistenza di un sé e altrettanti quelli che dicono con certezza che, a riguardo di questo punto specifico, abbia intenzionalmente taciuto.
LA MEDITAZIONE
Per il buddhismo, la meditazione è lo strumento grazie al quale si può ripulire la mente da ogni impurità, da ciò che provoca turbamento, come i desideri materiali, l'odio e le preoccupazioni. Grazie ad essa, il praticante può dunque giungere alla verità più alta, il Nirvana.
Sono previste due forme di meditazione, due sistemi abbastanza diversi tra di loro: il primo è detto samadhi (in pali samatha) e il secondo vipashyana (in pali vipassana).
Il samadhi consiste nel concentrare la propria attenzione mentale su un unico punto, cercando di non deviare mai dall'oggetto assunto come strumento di meditazione. E' sostanzialmente una forma di meditazione presa in prestito dal sistema yoga, ben precedente all'epoca buddhista. Si dice che attraverso questo sistema non si possa direttamente conseguire il Nirvana, tanto che il Buddha stesso ne avrebbe contestato la validità. Sarebbe utile, questa, solo per vivere felicemente in questa vita. Fu lui stesso che scoprì un altro metodo di meditazione, conosciuta come vipashyana, che è lo sviluppo di una diversa visione della natura delle cose che dovrebbe condurre alla liberazione della mente e ultimamente al Nirvana.
Analizzato dal Buddha stesso in un importante discorso sulla meditazione chiamato satipattana-sutta, (I Fondamenti della Consapevolezza), è un metodo analitico basato sulla presa di coscienza attenta e vigile di ogni azione che si compia. Non importa cosa si faccia, l'importante è non perdere mai la concentrazione sui propri atti, siano questi la respirazione, il provare piacere, odio, amore o dolore. Si deve sempre essere attenti a qualsiasi cosa si faccia. Secondo il buddhismo, questa forma di controllo mentale può portare al Nirvana.
Ma non si deve pensare che "sono io che faccio questo". Bisogna dimenticare il concetto illusorio dell'esistenza di un io agente per identificarsi totalmente nella propria azione. E quando i cinque impedimenti che si frappongono sul sentiero (i desideri sessuali, l'odio, la pigrizia, le eccitazioni e i dubbi) si saranno acquietati, sarà possibile ottenere la liberazione finale, il Nirvana.
TESTI CANONICI
I testi sacri riconosciuti come autentici dal Buddismo sono raccolti in due Canoni, denominati, in base alle scritture usate, Pali e Sanscrito.
- Il Canone Pali (deciso nel I sec. a.C.) è chiamato anche Tripitaka, perché raggruppa il corpus in tre parti (o "Tre canestri": infatti i libri di ogni raccolta, scritti su fogli di palma, potevano essere contenuti in una cesta). Esso rappresenta una sintesi delle dottrine predicate dal Buddha o a lui attribuite e delle teorie elaborate dalla scuola Hinayana.
- La prima cesta (Vinaya) comunica le regole da osservare nelle comunità monastiche; essa si compone di tre raccolte di libri: sono talmente voluminosi che per leggerli tutti, al Concilio di Rangoon (1954), ci vollero 169 sedute in 46 giorni;
- la seconda cesta (Sutra) parla delle conversazioni di Buddha coi suoi discepoli ed è il doppio della prima; la recita dei sutra è la base del culto e della meditazione di monaci e laici. Il loro linguaggio è poetico, le composizione sono ritmiche, molto convincenti le spiegazioni di difficili tematiche spirituali e psicologiche. Questa cesta contiene anche 547 leggende relative alle esistenze precedenti del Buddha;
- la terza cesta (Abhidarma) fornisce la spiegazione dei principali dogmi del Buddismo contenuti appunto nel Sutra (metafisica). Questi testi sono stati composti da ignoti autori dal III al I sec. a.C. e sono ad uso degli specialisti.
- Il Canone Sanscrito, nato circa sei secoli dopo la morte del Buddha, varia molto, come suddivisione e denominazioni, da Stato a Stato. Esso sostanzialmente è legato alla scuola Mahayana. Questa tradizione, i cui testi sono molto estesi, sostiene che Buddha avrebbe riservato la parte più sottile della sua verità alle generazioni posteriori. Un'edizione del Canone buddista, il Taisho Shinshu, stampato a Tokyo, comprende ben 100 volumi e fa capire la necessità di dover scegliere una "pars pro toto" per la fede personale. Tra le numerose scritture del Mahayana meritano d'essere ricodarte La sutra della perfetta sapienza e soprattutto il Libro tibetano dei morti, che suscitò grande interesse in Occidente.
I QUATTRO CONCILI
La disciplina delle comunità monastiche (e laicali) andò configurandosi attraverso quattro Concili, il primo dei quali (483 o 477 d.C.), a Rajagriha, ebbe appunto lo scopo di fissare un primo Canone.
Il secondo Concilio di Vaisali (383 o 367 a.C.), fu causato da una questione di disciplina monacale, ma porterà al più grande scisma in seno al Buddismo, quello tra le scuole Hinayana e Mahayana.
I punti controversi furono cinque:
- un monaco, pur con tutta la sua santità, può essere soggetto a necessità fisiologiche incontrollate;
- la sua illuminazione non esclude di per sé residui di ignoranza nella vita quotidiana;
- il monaco può essere soggetto a dubbi;
- la sua conoscenza su fatti contingenti può essere acquistata con l'aiuto di altri (non per immediata intuizione);
- il monaco può definire con parole del linguaggio ordinario la Via ineffabile che conduce al Risveglio.
Come si può notare, erano tutte obiezioni che si ponevano come scopo quello di democratizzare e umanizzare un movimento troppo rigido ed elitario. L'ideale qui diventa non tanto il singolo che ha raggiunto l'Illuminazione per se stesso, con particolari pratiche ascetiche, ma il laico comune, il quale, pur in grado di giungere all'Illuminazione, vi rinuncia e in nome della compassione si adopera per aiutare tutti gli altri esseri umani a trovare la via della perfezione.
Duecento anni dopo il secondo Concilio si contano già 18 scuole, ognuna delle quali sostiene di essere la vera interprete della dottrina del Buddha.
Il terzo Concilio di Pataliputra, indetto dal sovrano Asoka verso il 243-242, ebbe lo scopo di arginare i tentativi di reintrodurre la nozione hindu dello atman (il "se stesso"), sotto il nome di pudgala ("persona"), responsabile del karman.
In questo Concilio, inoltre, un migliaio di monaci lavorarono per nove mesi a controllare, completare e classificare le tradizioni tramandate.
Nel quarto Concilio di Harvan si discusse la revisione del Canone operata dalla scuola dei Sarvastivadin, per la quale occorreva preservare un minimo di realtà all'esperienza del mondo, altrimenti verrebbe a mancare il rapporto di causa ed effetto su cui è basata la legge del karman.
FESTE BUDDHISTE
Il giorno di riposo è il sabato.
Le tre feste più importanti sono il Capodanno, il Giorno del Buddha e la Quaresima. Il Capodanno cade in genere nel mese di aprile.
La celebrazione dei primi due giorni del nuovo anno comprende la Festa dell'acqua. La gente offre recipienti di acqua fresca ai suoi anziani e regala loro dei doni utili in segno di rispetto e per chiedere la loro benedizione; a loro volta gli anziani rispondono elargendo quattro grazie, e cioè lunga vita, bell'aspetto, tranquillità ed energia. Inoltre si getta per divertimento dell'acqua addosso ai passanti. Le due pratiche sono interpretate come un lavaggio dalla "sporcizia" accumulata nel corso dell'anno. L'acqua viene gettata addosso agli altri anche allo scopo di ottenere pioggia più abbondante nella imminente stagione della semina del riso. Infine la festa serve anche a farsi dei meriti andando a visitare i propri defunti. La gente, dopo aver offerto del cibo ai monaci nei monasteri, affolla le pagode dove sono sepolte le ceneri e le ossa cremate degli antenati.
Nel Giorno del Buddha si commemorano la nascita, l'illuminazione e la morte di Buddha.
Infatti in un giorno di luna piena del mese di maggio venne alla luce Siddharta Gautama; in un giorno di luna piena di maggio egli ebbe l'illuminazione, e in un giorno di maggio morì o, per meglio dire, entrò nel Parinirvana.
La Quaresima buddhista dura tre mesi, dalla luna piena di luglio alla luna piena di ottobre. In questo periodo, i monaci non possono viaggiare e non possono passare la notte fuori dal monastero se non in caso di gravi necessità. In tale epoca non si possono celebrare matrimoni, non si possono svolgere giochi e altre forme di divertimento pubblico, ed i devoti cercano di osservare il sabato più spesso che possono.
SANGHA
Un altro concetto molto importante nel Buddhismo è la "comunità" o sangha. Il sangha è l'ordine dei monaci buddhisti (bhikku). Oggi il Buddhismo è diviso, grosso modo, nella scuola meridionale o Theravada (diffuso in Birmania, Sri Lanka, Thailandia, Cambogia), chiamata anche Piccolo Veicolo, e nella scuola settentrionale, forse più conosciuta ai profani, del Mahayana (diffuso in Tibet, Mongolia meridionale, Cina, Giappone, Corea, Vietnam), chiamata Grande Veicolo.
Queste due scuole sono due aspetti complementari di un tutto. Il Buddhismo, pur sorto in India, ha saputo adattarsi ai popoli e alle culture in cui si è diffuso. Il primo Buddhismo era contrario ai riti e alle cerimonie, alle preghiere e alle osservanze. Buddha stesso non designò alcun successore né diede direttive riguardo una forma particolare di organizzazione. Col passare del tempo fu però necessario ricorrere a qualche forma di organizzazione per tenere insieme la comunità (sangha). Essa è stata così costretta a stabilire vari gradi all'interno della comunità. Vi è dunque il novizio; quindi il monaco vero e proprio; poi l'anziano e in ultimo il grande anziano. Tra i monaci non esistono comunque segni di distinzione. La disciplina è regolata da un codice, Patimokkha, che contiene 227 precetti. È cosa relativamente semplice farsi buddhista: buddhista è chi venera il Buddha come la guida o il maestro spirituale più alto, e che si sforza di vivere in conformità ai suoi insegnamenti. Chiunque vuole diventare seguace di Buddha dichiara la propria intenzione usando la formula seguente, detta Tirasana (i tre rifugi), recitata abitualmente in lingua pali, che si può tradurre così: "Al Buddha come rifugio io vado; al Dharma come rifugio io vado; al Sangha come rifugio io vado".
NIRVANA
Il Buddhismo sostiene una reincarnazione nelle diverse specie di esistenza. La comparsa nel mondo può essere interrotta, se il Karma è particolarmente cattivo, da pene infernali di lunga durata, mentre d’altra parte le buone azioni sono premiate con la dimora in un mondo divino. Questi cieli hanno una disposizione a piani sovrapposti, e quanto più in alto sono collocati, tanto maggiori sono le perfezioni di coloro che vi dimorano. Tuttavia il piacevole soggiorno nei mondi divini non è per il saggio un fine degno d’essere ottenuto a tutti i costi, poiché anche l’esistenza celeste è destinata ad aver fine, con il ritorno ai dolori della terra. La liberazione finale dalle sofferenze e dalle passioni è garantita solo dal raggiungimento del Nirvana.
Il Nirvana (dispersione, estinzione), secondo la dottrina del Hinayana è la liberazione, già realizzabile in questa vita, dai tre peccati capitali: odio, cupidigia ed illusione.
Con la morte, il santo raggiunge una condizione in cui tutti i gruppi di fattori esistenziali che formavano la sua Personalità, vengono annientati senza possibilità che ne sorgano di nuovi.
Il nirvana perciò, dal punto di vista dell'uomo posto nel mondo è il nulla, per cui spesso viene paragonato allo spazio vuoto. In realtà è un nulla relativo, non assoluto, poiché da quelli che lo hanno ottenuto viene sentito come una gioia ineffabile, soprannaturale.
Il Maháyána, almeno in alcuni testi e scuole, designa questo nirvana, che è simile "a una lampada che si spegne", come un nirvana inferiore. Il supremo nirvana, quello vero, cui tende il bodhisattva, non è una condizione statica, bensí dinamica, di superiorità sul mondo: in esso il santo, libero dall'ignoranza, dalla passione, dal dolore e dal karma, opera eternamente e in modo costante per il bene di ogni essere vivente.
Il buddhismo insegna che è possibile una liberazione di singoli individui, ma non una liberazione universale, poiché il numero degli esseri sulla terra è infinitamente grande. Il singolo però può raggiungere la salvezza solo nel corso di innumerevoli esistenze, liberandosi a poco a poco da tutti gli impulsi e dall'illusione della presenza di un'individualità perdurante e di un mondo formato di sostanze eterne. Il santo maháyána Aryadeva compendia la via della salvezza nelle seguenti parole: "In primo luogo a tutto ciò che è male rinuncia, e poi a credere nell'Io, renditi infine libero da tutto, e allora certo diverrai un saggio".
LE PAGODE
La pagoda, che è essenzialmente un reliquiario (le reliquie sono sepolte alla base), ha origine dallo stupa indiano, tomba a forma di cupoletta. Migrando verso oriente, il Buddismo ha portato sempre con sé il motivo dello stupa, modificandolo però a seconda degli elementi delle varie culture.
n Cina lo stupa si è progressivamente trasformato in torri ornamentali, generando infine lo splendido edificio della dinastia T'ang con i vari tetti sovrapposti. In Giappone il motivo dei tetti si è accentuato ancora di più, portando quell'incomparabile fiore di legno che è la pagoda nipponica. Spesso sul chiostro interno danno anche altri padiglioni; in special modo quello delle Omelie o delle Lezioni (Kodo); nelle vicinanze stanno anche la biblioteca e la torre campanaria; più defilate sono le residenze dei monaci e degli abati. Le coperture dei tetti sono in genere fatte di tegoli, ma si hanno anche esempi di templi e portali ricoperti da uno strato compatto e pettinato di erbe.
Con lo sviluppo del Buddismo Zen (dal XIV secolo in poi) si andò diffondendo un particolare tipo d'architettura (simile all'inglese half-timber), in cui i vuoti tra i pilastri di legno venivano riempiti di stucco bianco, con un ottimo effetto decorativo. Tipici dei monasteri Zen sono anche le sale, talvolta i padiglioni, per la meditazione. La filosofia Zen portò anche a un grande sviluppo dei giardini, intesi come oggetti di contemplazione e veicoli di salvezza.
Alcune famose Pagode
Horyu-ji di Kyoto (Giappone)
Sei Armonie di Hangzhou (Cina)
In Dein (Birmania)
Thien Mu (Vietnam)
Tongdo Sa (Corea del Sud)
Tempio Tahilandese
BUDDHISMO HINAYANA
Come ogni altro movimento religioso o filosofico, dopo la scomparsa del maestro l'organizzazione del "movimento buddhista" è andata sfaldandosi sotto i colpi dei dissensi interni di carattere teorico e politico.
Normalmente il buddhismo viene diviso in due grandi correnti, l'hinayana (del Piccolo Veicolo) e il mahayana (del Grande Veicolo).
Per l'hinayana (che si fregia del titolo di buddhismo vero e cioè quello ortodosso), non esistono sostanze eterne nel mondo delle mutazioni. L'essere individuale (pudgala) è stato frammentato in una molteplicità di fattori d'esistenza che sorgono per interdipendenza funzionale. I Dharma (che sono gli elementi ultimi della realtà, quelli che poi portano al divenire cosmico) sono delle forze concepite come concrete. Queste sono le realtà ultime e irriducibili; ed è mediante il loro gioco d'insieme che ogni cosa viene a originarsi.
L'hinayana si divide in tre grandi movimenti, tutti di ispirazione antica. Sono:
1) il theravada (o sthaviravada)
2) il sarvastivada (o vaibhashika)
3) il sautrantika (o sarvastivada)
Vediamoli brevemente uno ad uno.
THERAVADA
La parola thera in pali significa vecchio, autorevole. La parola sanscrita sthavira vuol dire la stessa cosa. Per questa ragione gli adepti venivano anche chiamati sthaviravadi. Indica la dottrina dei monaci anziani e venerandi, quelli che più s'avvicinano al Buddha, che più di tutti rifuggono da ogni innovazione di tipo teorico. Erano, insomma, i più conservatori. Ancora oggi i theravadin asseriscono che la loro ideologia sia proprio quella enunciata dal Divino e a più riprese si sono eretti come paladini contro ogni tipo di eresia.
Il Kathavattu è l'opera che dovrebbe contenere l'insegnamento puro del maestro. Il maestro da loro ritenuto il più autorevole è Buddhaghosha, che fu un prolifico scrittore.
SARVASTIVADA
La parola sarvastivadi significa "che tutto esiste" (sarvam asti). Sembrerebbe in contrasto con l'ideologia buddista, la quale nega invece l'esistenza di qualsiasi cosa. In realtà questi affermano che i dharma esistono eternamente, e di questi noi conosciamo solo le manifestazioni, mentre gli elementi originali (i dharma, appunto) in loro rimangono trascendenti. Dunque tutte le forme sono illusorie, ma i dharma che le compongono sono reali.
Ovviamente i theravadi attaccarono energicamente queste teorie giudicate eretiche, tanto che i sarvastivadi dovettero formarsi un proprio canone, diverso da quello theravadi. E fu l'Abhidharma-dipika, composto di sette testi. In esso l'opera principale è il Jnana-prasthana (Sistema della Conoscenza), che dicono risalga al Buddha e che fu redatto da Katyayaniputra. L'opera più celebre della loro scuola è l'Abhidharmakosha (Tesoro della Dogmatica), redatta da Vasubandhu (4 o 5 secolo d.C.). E' composto di 600 versetti facili e da un diffuso commento dell'autore.
SAUTRANTIKA
I sautrantika hanno la particolarità di dare valore di norma assoluta solo ai discorsi del Buddha. La loro scuola venne fondata da Kumaralata (si suppone nel secondo secolo d.C.) ed è una derivazione del sarvastivada, tanto che loro stessi amano chiamarsi con quell'appellativo.
Di loro si ha poca letteratura; non amano molto scrivere. Si conoscono solo le discussione nella quali si dilungano secondo una scadenza regolare.
Sebbene si facessero chiamare sarvastivadi, fra i due movimenti omonimi c'era aperta polemica e venivano dai primi ritenuti dei traditori. Pur tentando di ristabilire le concezioni più antiche, loro stessi non poterono fare a meno di apportare modifiche anche sostanziali.
Secondo loro, i dharma non hanno esistenza oggettiva, ma sono solo definizioni verbali. Un dharma non dura neanche un istante e quindi esiste solo il nascere e il morire, la non persistenza e l'invecchiamento. L'essere non è che una catena continua e ininterrotta di momenti. In conseguenza di ciò, non consideravano vere le percezioni dirette degli oggetti del mondo, in quanto nulla poteva essere percepito che questa non fosse già scomparsa.
Furono dei precursori alle teorie mahayana.
BUDDHISMO MAHAYANA
Ora parliamo della scuola mahayana (cioè del "Grande Veicolo").
La differenza fondamentale tra le due è che mentre l'hinayana accetta che i dharma abbiano qualche esistenza, il mahayana rifiuta anche questo punto di vista.
Le principali scuole sono due:
1. la madhyamika, (o shunya-vada)
2. la vijnana-vada (detta anche cittamatra-vada o yogachara)
Vediamole una per una.
MADHYAMIKA
(o shunyavada - la dottrina del "giusto mezzo")
Sorta all'inizio della nostra era, i madhyamika considerarono che si doveva andare al di là della concezione che i dharma potessero avere una qualsiasi realtà, o che possedessero qualsiasi sostanza, pur se a durata momentanea (relativismo universale). I dharma, infatti, sono esistenti o non esistenti solo in rapporto a qualcos'altro e in sé non hanno alcuna esistenza. Per questa ragione furono chiamati shunya-vadi, assertori della dottrina del vuoto. Vuota è una cosa che è "senza se stessa", cioè senza sostanzialità durevole. Il mondo è perciò vuoto.
La loro tecnica di meditazione consisteva nel distaccarsi da ciò che era concreto e definito. E' possibile liberarsi dall'idea di "villaggio" e "uomo", per concentrarsi gradualmente su quella della "foresta", poi sulla "terra" e poi sull'immensità dello "spazio". Fino a giungere a qualcosa che sia privo di qualsiasi segno distintivo. Quando si diventa consapevoli che anche questa è una nozione immaginativa, condizionata e transitoria, la si può superare e conquistare la liberazione. Lo svuotamento sistematico del pensiero e del pensare conduce all'abolizione di tutti i confini imposti al pensiero e dunque alla salvezza. Questa meditazione sul vuoto venne ideata dagli hinayani, ma furono i mahayani a dargli un'importanza determinante.
Gli scritti mahayana che espongono la teoria shunya-vada sono il Prajnaparamita-sutra (scritto prima dell'inizio della nostra era) e contengono i discorsi del Buddha.
Il principale esponente della dottrina shunyavada è Nagarjuna, che si suppone sia vissuto nel secondo secolo d.C. Fu lui a scrivere i 400 versi del Madhyama-karika e sembra che lui stesso ne abbia scritto un commento. Importante fu anche il suo discepolo Aryadeva, i cui scritti sono ancora considerati come autorità massima da tutti i buddhisti madhyamika.
VIJANA-VADA
(yogacara - la dottrina della sola coscienza)
Per questa ramificazione del buddhismo, la parte più importante dell"essere" è la coscienza (vijnana-citta), in quanto è essa che assicura la continuità della personalità (pure apparente) nella vita presente e futura. E' attraverso la coscienza che il karma può avere i suoi effetti.
I vijnana-vadi architettarono una teoria per cui in realtà il buddhismo non aveva mai subito scissioni, ma che le differenti scuole fossero come i pezzi di un unico mosaico, disegnato da una mente superiore. Il tutto era avvenuto in tre fasi.
Nella prima il Buddha aveva messo in moto la legge con la teoria dei dharma, idea gelosamente custodita dagli hinayani. La seconda era stata inaugurata da Nagarjuna con la filosofia shunya-vada. La terza i saggi Maitreya e Asanga con la bahyartha-shunyata-vada, teoria dell'irrealtà del mondo esteriore. Questi ultimi due, infatti, erano stati i maestri della vijnana-vada.
Maitreya è il nome del Buddha che deve ancora venire e che avrebbe rivelato ad Asanga (il fratello di Vasubandhu) i testi sacri chiamati Sutralankara e Madhyantavibhanga. Di Asanga si dicono cose eccezionali: addirittura sembra che convertì il fratello alla sua teoria vijnana-vada. A questa scuola si sarebbero uniti anche i celebri Dignaga e Dharmakirti (settimo secolo circa).
Dunque è sbagliato credere a un io e all'esistenza degli oggetti; invece tutto è in interdipendenza da qualcos'altro e che l'ultima realtà è un "uno spirituale".
Vengono chiamati yogacara perché i loro adepti adottarono tecniche di purificazione tipicamente yogiche. Il massimo raggiungimento è diventare un Buddha.
Per quanto riguarda il concetto di Nirvana, per i vijnanavadi non è più lo "spegnersi di una fiamma", come dicevano gli hinayani, ma una dimensione dinamica, dal quale il Buddha agisce sempre per il bene degli altri. Addirittura quegli illuminati che giungono al Nirvana statico saranno risvegliati da un Buddha e condotti al Nirvana "in movimento". Come si può ben vedere, questa teoria si discosta di molto dall'idea vedantica, secondo la quale l'individualità è una qualità che si sarebbe conservata in eterno
BUDDHISMO TANTRICO o VAJARAYANA
Meno diffuso degli altri rami del buddismo — 4 milioni di seguaci — e vagamente caratterizzato, nei libri e nelle enciclopedie, da pratiche che mescolano erotismo, magia e stregoneria, questa forma di buddismo ci sembra la più lontana da noi. Eppure si è fatta molto vicina da quando i tibetani, a causa dei problemi determinati dal nuovo regime cinese, si sono disseminati non soltanto nel nord dell’India, ma un po’ in tutto il mondo. Alcuni sono arrivati anche in Europa, ed hanno fondato diversi monasteri, dove qualche lama tibetano propone agli occidentali e vie del buddismo tantrico.
In uno dei monasteri che sono stati fondati in Francia mi hanno spiegato che si preparano a ricevere la visita di sua santità Karmapa (il responsabile dei bKa’-rGiud-pa, una delle quattro scuole tibetane), sedicesima incarnazione del Budda della compassione, che è aperto all’ecumenismo delle religioni ed ha incontrato a Roma papa Paolo VI.
In un altro monastero mi hanno fatto vedere, ai due lati della proprietà, il muro delle due zone chiuse, una per gli uomini e l’altra per le donne, dove alcuni occidentali sono stati ammessi, dopo un lungo periodo di prova, a compiere il grande ritiro di "tre anni, tre mesi e tre giorni" nella meditazione silenziosa, senza nessun contatto col mondo esterno. Il mio interlocutore cerca di inquadrare il tantrismo: non è una via tra le altre, ma al di là delle altre, che le comprende e le prolunga tutte. Secondo il suo schema, agli inizi del buddismo c’è stato il theravada, che cerca la realizzazione personale; poi è venuto il mahayana, che si occupa dei rapporti con gli altri e conduce all’amore universale; infine, con il tantrismo, si è arrivati all’essenza stessa del buddismo: il vuoto totale. Che cos’è questo vuoto? E’ una cosa che i cristiani fanno fatica a capire, mi dice, perché per loro, concretamente, c’è sempre l’uomo e Dio, e non Dio solo! Io vorrei aggiungere soltanto che i buddisti theravada capovolgerebbero l’analisi e presenterebbero le altre forme del buddismo come alterazioni dell’autentica fondazione primitiva, a cui essi sono rimasti integralmente fedeli.
Il tantrismo (dalla parola sanscrita tantra, che indica la trama di un tessuto e, in senso lato, una dottrina, una regola) è chiamato anche la via del vajrayana o il "veicolo di diamante". E il punto di arrivo di una corrente filosofica e religiosa che sorge all’interno dell’induismo del nord dell’India verso il VI secolo, e si sviluppa nel buddismo mahayana per fiorire poi in Tibet a partire dall’VIII secolo. Si presenta come "la via della forza che conduce al dominio del bene e del male", come "la via della trasformazione in cui il potere dello spirito tramuta in armi le circostanze interiori ed esteriori".
Il suo scopo, come quello di tutti i rami del buddismo, è l’illuminazione; la sua originalità sta nei mezzi. In confronto allo zen, di cui parleremo più avanti, che invita a un cammino austero, quasi verticale, il vajrayana proponi un’abbondanza di mezzi, di riti e di simboli:mantra (sillabe magiche) e mandala (diagrammi mistici), esercizi di hatha-yoga, o addirittura esercizi "allucinatori" o pratiche diverse, dirette a trasformare le energie del corpo e dello spirito. Il principio è che tutto può essere un mezzo, purché si sappia servirsene nel modo giusto.
Abitualmente però queste pratiche sono tenute segrete nei confronti dei non iniziati, per timore che ne facciano cattivo uso. Questa regola è ora meno rigida in occidente, come osserva un lama. Si presenta allora la tradizione del tantrismo innanzitutto come propria di un periodo— che è quello che stiamo vivendo—in cui un ciclo sta per finire, "un’età oscura" in cui i Veda e il brahmanesimo non bastano più. Il tantrismo è una nuova rivelazione che permette di risalire alle sorgenti stesse della vita. Da questa visione dell’"età oscura" derivano alcune caratteristiche.
L’uomo di questa età è strettamente legato al suo corpo: bisogna dunque rompere con la tradizione del distacco ed esercitarsi nella conoscenza e nel dominio delle energie segrete del corpo.
In questa età ultima, le forze elementari vengono liberate e gli insegnamenti che le riguardano possono essere rivelati, di qui gli insegnamenti iniziatici del tantrismo "di sinistra", in particolare sull’uso delle energie sessuali.
A questa era corrisponde il superamento delle antitesi e delle opposizioni, in particolare tra l’ascesi e il godimento dei beni terreni. Nello stesso tempo, in contrasto con la tradizione, il mondo non è più considerato come maya, ma come potenza.
Infine il principio supremo dell’universo si presenta sotto le spoglie di una dea, Sakti, o piuttosto di diverse dee, come le forme femminili "oscure" di Siva per il tantrismo di sinistra, o come le forme femminili "luminose" di Visnù per il tantrismo di destra. Questo simbolismo della destra e della sinistra è significativo; nel tantrismo di sinistra si trovano in effetti le pratiche più sconcertanti. L’idea di base è questa: chi si identifica completamente con la sakti è al di là del bene e del male e non è soggetto a nessuna proibizione. Se qualcuno si sforza di tendere a questa identificazione, i libri segreti e i rituali iniziatici lo sciolgono dai divieti riguardanti l’alcool, il sesso, I ecc..., affermando che, quando le passioni diventano assolute, perdono I il loro carattere abituale di impurità, "purificano bruciando". Di qui le descrizioni di riti orgiastici a cui possono partecipare coloro che hanno il cuore puro. I tibetani tantrici di oggi, quando vengono interrogati su questo argomento, danno la seguente risposta: tutto ciò riguarda soltanto quelli che sono progrediti nella via, non certo i principianti, e se qualcuno venisse da noi in cerca di erotismo rimarrebbe molto deluso! Ma, concludono, bisogna che comprendiate che per coloro che hanno raggiunto l’illuminazione non ci sono più prescrizioni etiche!
Anche qui dobbiamo comunque guardarci da un giudizio troppo affrettato. Il teologo cattolico che abbiamo citato all’inizio di questo capitolo, adotta un atteggiamento di estrema apertura, non approvando, certo, ma cercando di capire qualche cosa anche del cammino che gli sembra il più aberrante. "La verità che salva la "gnosi" del buddismo tibetano, scrive, non è una rivelazione che viene "dal di fuori"; è la verità stessa delle cose di questo mondo. Le stesse realtà terrene che caricano di catene quelli che non sanno, sono sacramenti di liberazione per coloro che sanno. Non ci si servirà, ad esempio, dei piaceri della carne, se non per neutralizzare l’azione della fantasia che conferisce loro tanto fascino". E osserva anche che c’è un punto comune tra il buddismo e il cristianesimo: l’intuizione che la liberazione deve scaturire dal cuore stesso della situazione "inferma" dell’uomo incatenato. Naturalmente, aggiunge, non si consiglierà mai al cristiano il peccato come propedeutica della salvezza, ma, come è dimostrato dall’esperienza di quei santi che hanno alle spalle una vita burrascosa, il senso di vuoto che lascia l’abuso delle cose di questo mondo, quando si combina con la fede, può avere un buon posto nella farmacopea della salvezza!
Forse si insiste in maniera troppo esclusiva sui lati inaccettabili per un cristiano, presenti nella ricerca tantrica "di sinistra". Si può essere buddisti tantrici e fare a meno di tutto ciò. C’è un libro scritto da uno dei "maestri" del tantrismo che non dice nemmeno una parola su questi aspetti, presentando il buddismo tantrico come una ricerca spirituale fondata sui maestri della tradizione, che per lui sono Marpa e il suo famoso discepolo Milarepa, considerato uno dei santi del buddismo. Leggendo le avventure della vita ascetica e mistica di quest’ultimo, e le terribili prove che gli sono state imposte dal maestro nel periodo della sua formazione, sembra di leggere la vita degli asceti cristiani del deserto. E tutto questo è presentato come riparazione del materialismo spirituale di tanti occidentali che si creano numerose illusioni, servendo si in maniera inadeguata delle tecniche del buddismo per rinforzare il proprio io.
BUDDHISMO ZEN
L’insegnamento del Buddha ci è pervenuto riflesso e frammentato in varie scuole.
Nonostante l’apparente diversificazione delle scuole e dei metodi di insegnamento, i principi basilari sono comuni.
La prima è detta Scuola Meridionale ( Theravada) o Hinayana, e fa riferimento ai testi Pali. Tuttora prospera nel Sud-est asiatico rappresenta l’unica sopravvissuta di un ampio ventaglio di scuole scomparse.
La seconda è detta Scuola Settentrionale e fa riferimento a testi in sanscrito.
Lo Zen appartiene alla Scuola Settentrionale.
Il termine Zen deriva, attraverso una traslitterazione del cinese Chan e dal sanscrito Dhyana (Meditazione). Storicamente la scuola della meditazione nasce in Cina dove fiorisce sotto la dinastia T’ang. All’inizio del secolo XIII approda in Giappone, dove attualmente è diversificata nelle scuole Zen: Rinzai e Soto. Dopo la sua nascita in Cina, la scuola Zen svilupperà linee specifiche che si proponevano ognuna come la continuazione dello stile di vari grandi maestri, considerati in seguito i fondatori delle varie tradizioni.
La patria storica dello Zen è dunque la Cina; qui le complessità del Buddhismo indiano vennero rimodellate sul modo di vita cinese, pragmatico e concreto, assumendo col tempo forme in armonia con la cultura locale e assimilando come sempre nel Buddhismo la cultura ospitante.
ETICA
Pare giustificato affermare che lo Zen rappresenta un ritorno dai profondi ma intricati sistemi filosofici e psicologici della Scuola Settentrionale ,
agli insegnamenti originari del Buddha.
La tradizione vuole che lo Zen sia stato introdotto in Cina dal monaco indiano Bodhidharma, primo patriarca cinese. In realtà fiorì e produsse i suoi tratti distintivi solo durante la generazione successiva al sesto patriarca Eno.
Sin dal suo apparire, sia per la sua predisposizione pratica, la scuola generò i propri maestri in luoghi remoti, dove la sopravvivenza era possibile soltanto con la coltivazione della terra; sistema di vita sconosciuto al Sangha (comunità di monaci) indiano.
Il lavoro divenne uno dei fattori fondamentali della pratica; cita un famoso maestro. Ancora oggi nei monasteri zen in Europa ed in Italia la pratica di samu (lavoro) è una componente basilare per la crescita spirituale dei praticanti.
La vita dello Zen è basata essenzialmente sui sedici precetti Buddhisti del Bodhisattva.
Bodhisattva è colui che rinuncia al Nirvana sino a quando anche l’ultimo degli esseri non abbia realizzato l’Illuminazione.
Questi principi dello Zen sono stati sviluppati in risposta ad una situazione culturale e ad un’epoca che è quella in cui lo zen ha iniziato a manifestarsi. Poiché la condizione umana e quindi la situazione socio culturale, è in continuo mutamento, è naturale che pur mantenendosi inalterato il contenuto e carattere originario dei precetti, la loro esplicitazione possa assumere forme e manifestazioni differenti, per aiutare meglio il praticante zen.
Possiamo trovare traccia di questi cambiamenti ad esempio nella formulazione dei Precetti dell’"Ordine dell’Interessere" del Maestro Tich Nat Han, come anche nella formulazione data dal "San Francisco Zen Center" fondato da Suzuki.
PRECETTI
I 16 Precetti del Bodhisattva
I sedici Precetti Buddhisti costituiscono una parte così tipica della pratica Zen, che vengono tradizionalmente chiamati " Il sangue delle vene" degli antichi lignaggi.
Quando si ricevono i 16 voti di Bodhisattva, si riceve un documento che attesta questo lignaggio di "sangue " degli antichi Maestri.
Per generazioni e generazioni "il sangue" dello Zen è passato ininterrottamente da Maestro a Discepolo, sino a noi oggi.
I TRE RIFUGI
Sanbokai
Rappresentano le fondamenta e l’orientamento della vita del Bodhisattva.
I Tre Rifugi o Tre Tesori "San Bo" sono : Il Buddha, Il Dharma, Il Sangha.
-Noi prendiamo rifugio nel Buddha: facciamo voto di vivere nell’Illuminazione, cioè prendiamo atto della natura illuminata che è già in ogni essere: a noi viverla!
-Noi prendiamo rifugio nel Dharma. Dharma indica sia l’Assoluto, che l’insegnamento, cioè il divenire dell’Assoluto. Fare voto di rifugio nel Dharma, significa seguire le regole stesse dell’Universo e i suoi insegnamenti, che nel Buddismo si manifestano attraverso le indicazioni degli antichi Maestri e dei Sutra del Buddha stesso.
-Noi prendiamo rifugio nel Sangha. Riconosciamo il ruolo interattivo di tutti gli uomini e la loro manifestazione come Buddha: esseri illuminati.
Solo quando riconosco tutti gli esseri come Sangha del Buddha, posso interagire con la loro vera essenza, non con la manifestazione egoica che li rappresenta.
I TRE PRECETTI UNIVERSALI
SANJUJOKAI
Non fare il male
Fare il bene
Aiutare tutto gli esseri.
Tre indicazioni essenziali Universali, della coscienza di ogni uomo.Non fare il male: è prendere consapevolezza del proprio vivere spesso egoico e prevaricatore, è una continua attenzione alla nostra vita e al rispetto della vita dell’Universo.
Astenersi dal nuocere a se stessi e agli altri, agli animali, alle piante, al pianeta intero.
Fare il bene: è la conseguenza diretta dell’astenersi dal fare il male, ma è molto di più. Spesso non basta non fare, ma è importante l’azione che si compie e come si agisce nella vita.
Aiutare gli altri: è l’unione del sé con il tutto. E’ scoprire che sino a quando tutti gli esseri non saranno risvegliati, nessuno lo sarà, e nello stesso tempo, quando un essere "diviene" un Buddha, l’intero Universo è un Buddha.
I DIECI PRECETTI ESSENZIALI
Il Maestro Buddhista Shantideva nel suo Bodhicayavatara dice: "Non sono i voti del Bodhisattva a riempire la mia esistenza, ma è il mio vivere che riempie di vita i voti stessi".
1) Entrare nella Via di non uccidere coltivando e incoraggiando la vita.
2) Entrare nella Via di non prendere ciò che non è dato coltivando e incoraggiando la generosità.
3) Entrare nella Via di non abusare dell’amore e del sesso coltivando e incoraggiando una onesta relazione tra tutti gli esseri.
4) Entrare nella Via di non parlare falsamente a proprio vantaggio coltivando e incoraggiando la giusta conoscenza.
5) Entrare nella Via di non intossicarsi e di non intossicare gli altri coltivando e incoraggiando la chiarezza
6) Entrare nella Via di non giudicare gli altri coltivando e incoraggiando il mutuo rispetto per tutti gli esseri e l’Universo.
7) Entrare nella Via di non elevare me stesso abusando degli altri coltivando e incoraggiando me (se ) stesso e gli altri a vivere in accordo con la propria Natura Risvegliata.
8) Entrare nella Via di non mettere scompiglio nel Sangha coltivando e incoraggiando una relazione reciproca di aiuto tra tutti.
9) Entrare nella Via di non indulgere all’ira coltivando e incoraggiando una relazione di amore e comprensione.
10) Entrare nella Via di non abusare dei Tre tesori coltivando e incoraggiando la Via del Bodhisattva per tutti gli esseri.
STORIE ZEN
Nan-in, un Maestro Giapponese dell'era Meiji (1868-1912), ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen. Nan-in servì il te. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare. Il professore guardò traboccare il te, poi non riuscì più a contenersi. "E' ricolma. Non ce n'entra più!". "Come questa tazza" disse Nan-in "tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo zen, se prima non vuoti la tua tazza?".
Gli insegnanti di Zen abituano i loro giovani allievi a esprimersi. Due templi Zen avevano ciascuno un bambino che era il prediletto tra tutti. Ogni mattina uno di questi bambini, andando a comprare le verdure, incontrava l'altro per la strada.
"Dove vai?" Domandò il primo. "Vado dove vanni i miei piedi" rispose l'altro. Questa risposta lasciò confuso il primo bambino, che andò a chiedere aiuto al suo maestro. "Quando domattina incontrerai quel bambino" gli disse l'insegnante "fagli la stessa domanda. Lui ti darà la stessa risposta, e allora tu domandagli: "Fa' conto di non avere i piedi: dove vai, in quel caso?". Questo lo sistemerà. La mattina dopo i bambini si incontrarono di nuovo. "Dove vai?" domandò il primo bambino. "Vado dove soffia il vento" rispose l'altro. Anche stavolta il piccolo rimase sconcertato, e andò a raccontare al maestro la propria sconfitta. "E tu domandagli dove va se non c'è vento" gli consigliò il maestro. Il giorno dopo i ragazzi si incontrarono per la terza volta. "Dove vai?" domandò il primo bambino. "Vado al mercato a comprare le verdure" rispose l'altro.
Il grande santo buddhista Nagarjuna andava in giro tutto nudo, con solo il perizoma e, paradossalmente, una ciotola dorata per raccogliere l'elemosina, dono del re che era suo discepolo. Una sera stava per mettersi a dormire, fra le rovine di un antico monastero, quando si accorse che un ladro lo stava spiando da dietro una colonna. "Tieni, prendila", disse Nagarjuna, porgendogli la ciotola. "Così non mi verrai a disturbare quando sarò addormentato". Il ladro arraffò la ciotola e fuggì via, per ritornare però il mattino seguente con la ciotola e una richiesta: "Quando ieri sera mi hai regalato questa ciotola con tanta generosità, mi hai fatto sentire molto povero. Insegnami come fai a procurarti la ricchezza che ti permette di avere questo sereno distacco dalle cose".
Ikkyu, il maestro di Zen, era molto intelligente anche da bambino. Il suo insegnante aveva una preziosa tazza da tè, un oggetto antico e raro. Sfortunatamente Ikkyu ruppe questa tazza e ne fu molto imbarazzato. Sentendo i passi dell'insegnante, nascose i cocci della tazza dietro la schiena. Quando comparve il maestro, Ikkyu gli domandò: "Perché le gente deve morire?" "Questo è naturale" spiegò il vecchio. "Ogni cosa deve morire e deve vivere per il tempo che le è destinato." Ikkyu, mostrando la tazza rotta, disse: "Per la tua tazza era venuto il tempo di morire".
Un giovane andò da un maestro e gli chiese: "Quanto tempo potrò impiegare per raggiungere l'illuminazione?" Rispose il maestro: "Dieci anni". Il giovane era sbalordito. "Così tanto?" domandò incredulo. Replicò l'altro: "No, mi sono sbagliato, ci vorranno venti anni". Il giovane chiese: "Perché hai raddoppiato la cifra?" Allora il maestro spiegò: "Adesso che ci penso, nel tuo caso ce ne vorranno probabilmente trenta".
Ti sei svegliato prima dell'alba, ma il tuo nemico non l'hai trovato. Quando il sole era basso hai attraversato tutta la pianura, ma il tuo nemico non l'hai trovato. Mentre il sole era alto nel cielo hai cercato tra le piante di tutta la foresta,
ma il tuo nemico non l'hai trovato. Il sole era rosso nel cielo mentre tu cercavi sulla cima di tutte le colline, ma il tuo nemico non l'hai trovato. Ora sei stanco e ti riposi sulla riva di un ruscello, guardi nell'acqua ed ecco il tuo nemico: l'hai trovato.
Un uomo perse il suo anello più prezioso; cercò ovunque per ritrovarlo, ma nonostante la sua fatica non ci riuscì. Si sedette su una pietra, disperato, cercando inutilmente di sopprimere la sua disperazione. Come al solito il suo cane gli si avvicinò cercando le carezze del padrone. Il vicino di casa lo salutò come ogni sera. Gli amici gli fecero vedere i pesci che avevano pescato e gliene regalarono alcuni. La moglie e i figli lo accolsero con affetto al suo arrivo a casa esattamente come accadeva sempre. La giornata si concluse nella pace familiare. Purtroppo il tormento per la perdita dell'anello perseguitava ancora l'uomo, il quale però pensò: "nessuno si è accorto che ho perso l'anello, tutti si sono comportati con me come sempre, perché proprio io devo comportarmi in modo diverso con me stesso?". Fu così che si addormentò sereno.
Il maestro Tanzan era in viaggio con il suo allievo Ekido lungo una strada fangosa. Ad un certo punto incontrarono una bella ragazza in kimono e sciarpa di seta, che non poteva attraversare quella melma, senza rovinare il suo bel vestito.
Senza problemi, Tanzan la prese in braccio e la trasportò sull'altro lato della strada. Ekido rimase pensieroso per tutto il giorno. Alla sera, non resistendo più, chiese apertamente al maestro: "Noi monaci non avviciniamo le donne, è pericoloso. Perché l'hai fatto?" Tanzan rispose: "Io quella ragazza l'ho lasciata laggiù. Tu la stai ancora portando con te"
Non cercare di seguire le orme dei saggi. Cerca ciò che essi cercavano.
BUDDHISMO GIAPPONESE
Dopo la morte del Buddha i suoi insegnamenti si diffusero con grande rapidità: infatti oltre all’India arrivarono fino a Ceylon all’Indocina occidentale, nel Nepal, negli Stati Himalayani, in Tibet, Mongolia, Cina, Corea, Vietnam e nel 525 anche in Giappone.
Fu portato qui da un’ambasceria coreana e qui, dopo iniziali difficoltà trovò un terreno estremamente fecondo per la sua predicazione, grazie soprattutto all’appoggio del principe Shotokutaishi (morto nel 621). Per il fatto che non combatteva lo shintoismo locale, ma anzi lo accoglieva nel suo sistema, esso divenne la potenza spirituale predominante e per secoli conferì all’impero insulare la sua impronta. In Giappone le sette hanno acquistato particolare importanza; le più antiche di queste scuole, che avevano la loro sede nella capitale di allora Nara, hanno oggi solo pochi seguaci. Esse rappresentavano diverse correnti:
l’Hinayana il cui scopo che, fatte le debite eccezioni, può essere realizzato solo dai monaci ed il cui nome è Arhat, consiste in un’ascesa che si realizza attraverso una serie di gradi attraverso i quali, dopo aver abolito l’odio, la cupidigia e la vanità, si può raggiungere la condizione dell’individuo santo, superiore alle cose mondane, che alla morte entra nel Nirvana.
il Mahayana in cui l’etica assume una forma più attiva, più rispondente anche nella vita laica. Lo scopo cui il fedele deve tendere, non è più quello di diventare un santo, estraneo al mondo, bensì un futuro Buddha, che sacrificandosi e rinunciando a se stesso porta alla salvezza innumerevoli esseri viventi. Col compimento delle dieci perfezioni (paramita), cioè delle virtù cardinali: generosità, disciplina, pazienza, energia, meditazione, conoscenza, abilità nel trasmettere la verità, decisione, facoltà miracolose e sapienza, egli ascende, sulla via della perfezione, i dieci gradini corrispondenti.
A Kamakura, dove dal XII al XIII secolo dinastie nobiliari e guerriere esercitarono il potere in luogo dell’imperatore (Tenno, Mikado) la scuola di meditazione venuta dalla Cina trovò numerosi seguaci. Anche se i metodi di meditazione (Zen) da essa insegnati sono stati portati, come pare, dall’India in Asia Orientale, hanno acquistato qui forme autonome corrispondenti al pensiero ed alla mentalità affatto diversi dall’Estremo Oriente.
Attraverso il severo esercizio può essere attinta la grande esperienza (satori) non esprimibile a parole, del vuoto superiore ad ogni contrasto, che libera da ogni dolore del mondo perituro e mutevole. Si verifica così una totale trasformazione della personalità determinata dall’Io, così che essa raggiunga il dominio su se stessa e la perfetta armonia con il fondamento universale.
Lo Zen veniva praticato specialmente dai cavalieri giapponesi; esso esercitò anche una grande influenza sull’arte. Inoltre sorsero a Kyoto varie sette Amitabha (giapponese: Amida), che speravano dall’aiuto di questo Buddha la rinascita nel suo "paese puro".
La più importante è la "Shin-shu", la "vera scuola", fondata nel XII secolo da Shinran Shonin. Quest’uomo di nobili natali era persuaso, come Lutero, che le buone opere, l’ascesi, ecc., non portano alla salvezza, la quale dipende piuttosto dalla fede nella misericordia salvatrice di Amida. Perciò egli si sposò e concesse il matrimonio anche ai sacerdoti della sua setta.
Bisogna ricordare infine la scuola di Nichiren Daishonin, che trae il nome da colui che la fondò nel 1253. Nichiren era un monaco trentenne studioso delle religioni che visitò i principali templi per studiarne a fondo le varie dottrine. Dopo quindici anni di ricerca, arrivò a stabilire un nuovo tipo di pratica, naturalmente basata sugli insegnamenti del Buddha Siddharta. In particolare Nichiren ritenne di fondamentale importanza uno degli ultimi insegnamenti predicati da Siddharta: il sutra del loto,
a cui si rivolge un vero e proprio culto, che solo il pronunciare il titolo di quest’opera è considerato come salutifero ed è ancora oggi considerato fra i testi più importanti influenti dell’intera corrente Mahayana. Nel sutra del loto il Buddha rivela l’esistenza di una forza vitale universale che genera, permea e regola tutti i fenomeni della vita. Ogni essere umano – egli dice – indipendentemente da razza, sesso, cultura o epoca, possiede in sé questa condizione vitale illuminata (definita Buddhità), così come in ognuno sono presenti altri stati vitali che si manifestano nelle varie forme dell’umana natura (collera, avidità, gioia, sofferenza e così via). La Buddhità rappresenta il potenziale per lo sviluppo di un'illimitata energia positiva che, attingendo dall’inesauribile fonte della vita universale di cui l’uomo è parte integrante, tende verso uno stato di felicità permettendo il superamento delle umane sofferenze
e la naturale compassione per gli altri. Nichiren affermò che l’essenza di questa dottrina è contenuta in una frase specifica (mantra) la cui recitazione risveglia progressivamente la natura illuminata interiore, così come, ad esempio, una frase può risvegliare la collera. Questo mantra secondo Nichiren è la chiave che apre la porta alla illimitata potenzialità celata nelle profondità dell’essere: una chiave accessibile a tutti ed universalmente valida. Il carattere rivoluzionario di tali affermazioni provocò la burrascosa reazione delle autorità religiose e governative dell’epoca, che cercarono di contrastare la propagazione di questo insegnamento. Oggi, ad oltre settecento anni di distanza, il Buddhismo di Nichiren Daishonin viene praticato da milioni di membri della Sgi (Soka Gakkai Internazionale) un’organizzazione laica fondata nel 1975. Agli insegnamenti di Nichiren Daishonin si rifanno anche altri gruppi religiosi, che talvolta danno interpretazioni anche molto diverse fra loro. Obiettivo della Sgi è quello di contribuire alla creazione di una società pacifica basata sul massimo rispetto per la vita, sul dialogo, la tolleranza, lo sviluppo della cultura e dell’educazione. Tutto questo attraverso la diffusione - anche culturale - del Buddhismo di Nichiren Daishonin. La pratica quotidiana consiste nella recitazione del mantra suddetto e di due brani del "Sutra del Loto"; nello studio della filosofia buddhista e nella concreta applicazione dei suoi principi altruistici nella vita di ogni giorno. Caratteristica fondamentale di questa pratica è infatti quella di poter essere utilizzata e verificata nella realtà quotidiana in cui si vive, mantenendo intatta la propria identità sociale, geografica e culturale.
Tutte le sette caratterizzanti il buddhismo giapponese, si sono scisse in numerose sette minori. Questo processo è stato favorito dall’occupazione americana nel 1945: ora si contano ben 13 sette principali e 262 sette minori. Il Giappone è attualmente il paese in cui il Mahayana ha raggiunto la sua più alta fioritura ed in cui anche lo studio della storia e della filosofia buddhiste viene condotto da numerosi esperti secondo metodi scientifici moderni. I giapponesi emigrati nelle Haway vi portarono il buddhismo che, dai loro discendenti, adattato alla lingua inglese ed alle forme di culto protestanti (musica d’organo, canto corale), è praticato in modo modernizzato. Questo aspetto semplificato e riformato del buddhismo è chiamato "Navayana" (il "Nuovo Veicolo"). Esso ha acquistato un certo seguito anche fra gli Americani.
BUDDHISMO TIBETANO
LAMAISMO. Il Buddhismo tibetano pratica la forma del "Veicolo di diamante" (vajrayana). Secondo la tradizione, la penetrazione del buddhismo nel Tibet è legata all'opera del re Sron-btsan-sgam-po (620-649 ca.) ma è probabile che una prima penetrazione di dottrine buddhiste di provenienza cinese e centro-asiatica si sia verifica ancora prima di quest'epoca.
Il periodo che va dal X al XV secolo vide il consolidamento del Buddhismo in Tibet e la definitiva sistemazione del Canone, che risultò diviso in due grandi sezioni, una contenente i sutra, il tantra, le regole di disciplina, l'altra la letteratura esegetica.
La crescente mondanizzazione della setta Sa skya pa (così chiamata dal monastero di Sa Skya, fondato nel 1073), finì con l'accentrare il potere temporale nelle mani dei religiosi e consentì loro di esercitare per secoli un forte dominio teocratico su tutto il paese. Tale potere venne legittimato politicamente dallo stesso Kubilai khan (capo dei tartari, nipote di Gengis Khan) nel XIII secolo, che concesse loro la sovranità (ereditaria di fatto, in quanto gli abati di questa setta, non vincolati al celibato, potevano contrarre matrimonio e quindi trasmettere il potere ai propri figli) su tutto il Tibet. Si stabilirono in questo modo quelle relazioni ufficiali tra i due popoli che porteranno al vassallaggio del Tibet sotto i Mongoli e poi sotto la Cina.
Il buddhismo tibetano è chiamato lamaismo dal termine lama, cioè maestro. Il potere teocratico del lamaismo si esercita attraverso una comunità fortemente gerarchizzata a capo della quale sono due Lama: il Dalai Lama (= maestro che è oceano di saggezza) e il Pan c'en-Lama. Il primo risiedeva nel convento Potala a Lhasa e deteneva il potere supremo sul Tibet; il secondo invece dimorava nel monastero di Ta-shi-lhum-po e deteneva il potere spirituale. In ordine di dignità ai due grandi Lama, seguono 180 Hutuktu, considerati incarnazioni di bodhisattva e di dèi.
Ogni volta che un Lama muore, i dignitari religiosi si pongono alla ricerca di un bambino nel quale si può avere la certezza (in base ad eventi straordinari) che si è rifugiata l'anima del Lama defunto: ove le prescritte prove di accertamento confermino la validità delle scelte, il predestinato viene ad occupare di diritto il posto del Lama deceduto.
Tra i culti più notevoli praticati dai lamaisti vi è quello dei "Buddha viventi", ossia dei grandi monaci i quali, durante le funzioni liturgiche, sono fatti oggetto di venerazione come esseri divini. Il Lamaismo è oggi presente, oltre che in Tibet, in Mongolia, nella Cina del Nord e dell'Ovest, in Turkestan, Nepal, Bhutan e Sikkim